Negli ultimi anni il branding è diventata un’attività che ha trovato sempre più spazio, anche tra le realtà imprenditoriali più piccole. Proprio queste, però, hanno più difficoltà a capire alcune delle dinamiche che regolano i processi, delle definizioni o dei modelli che potrebbero aiutarle a crescere, anche perché con meno risorse l’accesso a consulenze strutturate è più difficile.
Poco tempo fa ho parlato di brand equity sui miei canali social e ho chiesto se fosse un concetto conosciuto o se fosse stato utile un approfondimento. La risposta è stata positiva, perciò con questo post proviamo a capire meglio cosa sia la brand equity e perché sia importante da conoscere per costruire anche i brand più piccoli.
Una breve premessa: il mio intento è quello di portare qui dei concetti tecnici, spesso usati nelle sedi di aziende grandi e dai fatturati multimilionari, semplificarli e spiegarli in modo utile a chi ha un piccolo brand, sia personal che business. Al di là dei modelli che ti espongo, spero passino concetti utili e da mettere in pratica per creare e crescere un brand.
Brand equity: una definizione
In due parole, per brand equity intendiamo il valore della marca. Più precisamente la forza che una marca ha sul mercato grazie al proprio patrimonio, principalmente sotto 2 aspetti:
- quello finanziario, cioè consideriamo quanto vale il brand come asset tangibili che sono parte del patrimonio aziendale (per esempio marchi, brevetti, ecc.);
- quello del marketing, cioè tutto ciò che concerne l’immagine e il percepito che il brand ha saputo costruire nel tempo, il rapporto col target e la community, comportamenti del target, i canali su cui è distribuito, ecc.
Possiamo semplificare e sintetizzare, quindi, dicendo che la marca ha valore grazie ai suoi asset tangibili, dal logo al nome, da un brevetto depositato a una tecnologia sviluppata. Ma gli asset intangibili sono altrettanto importanti, sia se parliamo di brand che vendono prodotti e servizi, sia se consideriamo i brand personali. Anzi, per questi ultimi io credo che gli elementi intangibili della marca spesso abbiano più valore del resto. In generale, soprattutto per brand piccoli o all’inizio, i fattori intangibili sono quelli determinanti per la crescita.
In questo post cercherò di spiegare in termini semplici alcuni concetti che ti aiuteranno a capire cosa è importante per crescere il tuo brand e farlo “pesare” sul mercato.
Ma cosa significa avere un peso? Una marca, un brand, si compone di tanti elementi che ne determinano il peso sul mercato. Questo peso sul mercato si traduce in quanto le persone si fidano della marca, quanto ne colgono il valore aggiunto e perciò la scelgono, la acquistano, la consigliano.
Vediamo assieme qualche concetto più tecnico per dare una cornice, e cerchiamo di capire, in concreto, da cosa è composta la brand equity, perché è importante anche per i piccoli brand e su quali basi costruire la propria marca per farle accrescere il patrimonio nel tempo.
David Aaker e il suo modello di brand equity
David Aaker è di certo una delle figure di riferimento quando si parla di valore della marca, perché è uno dei primi teorizzatori del concetto. Secondo Aaker, il valore di un brand è dato da un mix di diversi elementi:
- fedeltà alla marca (brand loyalty);
- notorietà della marca (brand awareness);
- qualità percepita della marca (perceived quality);
- associazioni mentali legate alla marca (brand associations);
- una serie di elementi caratterizzanti come marchi depositati, tecnologie brevettate, ecc. (other proprietary brand assets).
Tutto questo, insieme, concorre al valore che la marca ha.
Come vedi da te, i cosiddetti asset tangibili, cioè ciò che “possiamo toccare”, non sono in maggioranza rispetto al resto. C’è molto, moltissimo, che riguarda la relazione tra le persone e la marca, quanto la conoscono e magari la consigliano, quanta qualità percepiscono in ciò che fa – siano essi prodotti o servizi, non cambia.
Il valore di un brand, quindi, passa più di tutto dal mondo che riesce a creare e costruire attorno a sé. Ce lo spiega ancora meglio il modello elaborato da Keller.
La piramide di Kevin Keller
Un altro modello molto usato per definire il peso di un brand sul mercato è quello della piramide di Keller. Questo modello e la sua piramide vengono chiamati anche CBBE (Customer-Based Brand Equity). Possiamo provare a riassumere il concetto così: il valore della marca è determinato dalla percezione che ne hanno le persone e per aumentarlo è necessario creare attorno alla marca stessa una serie di esperienze e racconti che influenzino positivamente le persone, le invoglino ad avvicinarsi alla marca e averne un buon giudizio. Keller, perciò, si concentra molto sulle persone e su come interagiscono con i brand, perché lo fanno e perché li scelgono.
Vediamo più da vicino da cosa è composta questa piramide.
La piramide di Keller scompone un brand in 4 aree e componenti, e il valore di un brand deriva dal punto di incontro di queste 4 aree.
Vediamole in modo sintetico, dalla base all’apice.
- Brand identity: la prima cosa necessaria per creare un brand è lavorare sull’identità.
Chi è la tua marca? Come possono riconoscerla sul mercato, le persone? Cosa la caratterizza e per cosa si distingue? Colori, forme, nomi, promesse, …
In questa fase si parla di prominenza della marca, cioè di quanto è conosciuta e riconosciuta dalle persone. Perciò alla base della piramide ritroviamo anche il concetto di brand awareness, cioè notorietà, consapevolezza della marca. Lavorare sull’identità (valori, mission, vision, palette, logo, brand voice, stile comunicativo e tanto, tanto altro) è il primo e imprescindibile passo per potersi posizionare sul mercato, una componente fondamentale perché le persone riconoscano il brand. - Brand meaning: qui parliamo di performance e immagine. Cosa è il brand, come soddisfa i bisogni funzionali e psicologici delle persone?
Per quanto riguarda la performance parliamo del modo in cui il prodotto o servizio soddisfa le esigenze, i bisogni pratici del suo pubblico. Quanto è affidabile, competente, efficace, ecc. Quando parliamo di immagine, invece, stiamo parlando di come il brand può soddisfare le esigenze psicologiche o sociali delle persone. Emerge, dunque, quanto sia importante ragionare sull’esperienza che vogliamo dare alle persone, sia in termini di prestazioni di ciò che offriamo, sia in termini di come vogliamo che si sentano le persone che usano i nostri prodotti o servizi. Questo secondo aspetto è meno tangibile ma altrettanto importante nella costruzione di un’esperienza significativa, che lasci un segno. Cioè uno dei motivi principali per cui le persone scelgono una marca o un’altra. - Brand response: questa sezione della piramide è quella più legata al giudizio.
Cosa pensano della mia marca le persone? Come si sentono quando ci interagiscono?
Anche qui troviamo una suddivisione tra giudizio e sensazione, due dimensioni diverse ma affini. Il giudizio riguarda gli aspetti più tecnici e funzionali, mentre le sensazioni – come suggerisce il concetto stesso – sono quelle che ci fanno valutare la marca sulla base di come ci fa sentire nel complesso.
Ovviamente nel caso delle sensazioni i fattori che concorrono non sono oggettivi e sempre prevedibili: ogni persona fa esperienza del mondo sulla base della propria personalità e della propria storia. Il vissuto di una persona può influire molto sulla sensazione che ha di una marca in toto o di un prodotto o servizio che eroga. Lavorare sulle esperienze che vogliamo offrire come brand è importantissimo, ma non potremo suscitare le stesse sensazioni e lo stesso giudizio in chiunque. Ciononostante, non dobbiamo farci influenzare negativamente da valutazioni poco positive, specie se non provengono da chi abbiamo individuato come nostro target. Sono certa che spesso hai sentito dire che ciò che fai non è per tutti, che il tuo pubblico non è tutti. Ecco, diciamo che il giudizio e il responso che dovrebbe interessarti di più è quello di chi è in target. - Brand relationship: all’apice della piramide di Keller c’è lei, la relazione.
Incontriamo il concetto di risonanza: quanto una marca risuona nelle persone? Che tipo di relazione è stata in grado di creare?
La risonanza è l’effetto che si crea quando le persone sentono un legame profondo e autentico con il brand, tanto che lo acquistano sempre e sono leali (la già citata brand loyalty), lo consigliano, partecipano attivamente in alcuni casi per promuoverlo. Diventano, in un certo senso, brand ambassador.
Perché questo avvenga è chiaro che il legame con la marca è su un piano ben diverso dal semplice: compro questo oggetto o questo servizio perché mi risolve il problema. Una marca risuona nelle persone quando tocca corde emotive e infonde sicurezza, appartenenza. Anche questo è rispondere a dei bisogni, pur se non funzionali o pratici.
Per costruire relazioni forti, quindi, è necessario avere un’identità chiara, valori forti e comunicarli in modo coerente e senza timore. In questo modo le persone si sentiranno parte di una storia comune e non avranno dubbi su chi siano le marche da scegliere e a cui essere fedeli.
Dopo aver visto questi modelli che indicano gli elementi che fanno forte una marca, ribadisco il concetto: lavorare sugli aspetti relazionali del brand è importante quanto, se non talvolta di più, che farlo sul prodotto o servizio. In un contesto di mercati affollati, un brand per essere tale deve posizionarsi per ciò che fa, come lo fa, che bisogno soddisfa e anche per come fa sentire le persone. Il brand deve raccontare delle storie autentiche e credibili, creare un’immagine di sé coerente e riconoscibile, individuare valori e avere una visione forte da perseguire e raccontare per far sentire le persone parte di un progetto comune.
E, a proposito di come far sentire le persone e di come creare e accrescere il valore, sui mercati di oggi essere marche che si attivano per delle cause è molto apprezzato dal pubblico. Brand equity, oggi, è anche brand activism.
Brand equity = brand activism
Quando parliamo di sensazioni e bisogni di appartenenza e rappresentazione, introduciamo anche il concetto di brand activism: l’attivisimo di una marca. Questo modello di business è stato introdotto e teorizzato da Philip Kotler e Christian Sarkar nel loro lavoro pubblicato nel 2019, e da qualche anno concorre a costruire la forza e il peso di un brand sul mercato.
Cosa significa fare attivismo di brand?
Attivismo, ci dice Wikipedia, significa: L’attivismo è un’attività finalizzata a produrre un cambiamento sociale o politico ed è spesso intesa anche come sinonimo di protesta o dissenso.
In questo caso, la protesta e il dissenso si manifestano con i brand che prendono iniziative anche controcorrente ma in linea con le richieste di giustizia di un gruppo di persone.
Ma perché dovresti fare attivismo con il tuo brand?
I sondaggi a livello globale sottolineano come in molte parti del mondo – di certo di quello cosiddetto occidentale – la fiducia in istituzioni, media e governi siano in discesa da tempo. Le persone si fidano sempre meno di chi li governa, delle istituzioni in genere, specie in un periodo storico come questo: crisi climatica, diritti umani, sociali e civili in pericolo, salute mentale collettiva fragile e molto altro sono minacce concrete ma pare che le istituzioni non si stiano impegnando davvero per un cambiamento.
Di chi possiamo fidarci, quindi? A chi possiamo chiedere di intervenire come parte attiva di un cambiamento di rotta? Quali sono le realtà che possono, concretamente, creare migliori condizioni per la società? Le aziende, le marche, i luoghi di lavoro.
L’attivismo di marca per ora è terreno – soprattutto – delle grandi marche per due motivi: uno è che sono più conosciute e perciò più persone chiedono loro di agire e fare gesti concreti, e due perché hanno più mezzi e più influenza in alcuni processi.
Per intenderci, se Nike o Apple decidono di supportare una causa, avranno più peso del negozio di quartiere della tua città. Ciò non significa che il negozio di quartiere o qualsiasi realtà piccola non possa abbracciare delle cause, sostenerle ed essere parte attiva del cambiamento che le persone vogliono. Se il negozio di quartiere si attiva in progetti che vanno a beneficio delle esigenze della comunità più prossima e della città, è già un impatto importante. Non c’è bisogno di essere multinazionali per attivarsi in favore di un modo più equo e aumentare il proprio valore percepito agli occhi del pubblico.
Attenzione però: attivarsi non deve essere solo una facciata. Se vuoi impegnarti come brand, per esempio in cause legate all’ambiente, cerca di farlo in tutto il tuo ecosistema, dal processo produttivo alle spedizioni, dalle partnership ai canali in cui distribuisci, ecc. Ricorda di comunicarlo, spiega perché hai fatto queste scelte, racconta perché per te è importante, accogli le osservazioni del tuo pubblico. Anche questo è parte della tua storia e ti farà riconoscere, scegliere.
Brand activism sì, ma con criterio e concretezza.
Un esempio concreto di brand equity, anzi due
Bene, dopo tutti questi concetti e modelli teorici, ti porto degli esempi per rendere più concreto il discorso sul valore di una marca.
Nel primo caso, ipotizziamo che sia tu ad avere un’azienda, un attività, un progetto di business e facciamo anche un paragone con un brand già molto affermato. Poniamo che tu abbia una marca che produce scarpe e hai creato e brevettato una tecnologia per renderle più comode o più traspiranti. Prendi l’esempio di Geox: ad oggi ha 55 brevetti depositati tra quelli per le scarpe e quelli per le linee di abbigliamento che hanno arricchito l’offerta nel tempo.
Ora, il valore della tua marca non sta solo in questi brevetti o nelle strutture proprietarie in cui si produce e si amministra l’azienda e altro che possiamo definire asset tangibili. Ad aumentare il valore della tua marca di scarpe concorrono altri fattori: per esempio, quanto le persone si fidano dei tuoi prodotti perché trovano che la promessa della marca (mettiamo che sia rendere le scarpe più comode grazie al tuo brevetto) è soddisfatta dalle prestazioni. O ancora, quanto la qualità della marca è percepita dal target perché oltre che essere scarpe molto comode sono anche durature, magari. Il valore della marca lo misuri anche nel fatto che le persone che hanno comprato da te tornano a farlo, consigliano ad altre di comprare. Ancora, ti esponi e prendi provvedimenti concreti nel tuo ambiente di lavoro in favore delle famiglie e metti a disposizione supporti extra per chi ha figli e figlie, o magari un congedo parentale uguale per entrambe le persone della coppia genitoriale. Nutri l’ecosistema-brand in ogni aspetto, senza curarti solo del prodotto e della sua qualità – quella dovrebbe essere buona a prescindere.
Ciò che rende un’azienda un brand è tutto quello che passa anche da quanto la marca è nota, conosciuta.
Ti ho nominato Geox prima per fare un esempio di una marca che è diventata famosa proprio per aver brevettato delle soluzioni traspiranti e resistenti all’acqua, tanto che ormai per le persone Geox e traspirazione sono praticamente sinonimi. Questo accade per le sue caratteristiche tecniche, ovvio, ma anche perché il payoff di Geox è la scarpa che respira (tanto che è anche un marchio depositato!). Geox ha fatto un lavoro di posizionamento notevole anche dal punto di vista comunicativo, di partnership, di immagine a tutto tondo. Questo ha generato una percezione e un rapporto col brand così alto da aumentarne il valore in modo esponenziale.
Oggi le persone ormai associano subito Geox al concetto di scarpa comoda, traspirante e asciutta perché il lavoro fatto sulla marca è stato coerente e costante su tutti i livelli e nel lungo periodo.
Insomma, il tuo brand che sia di prodotti, servizi o personale, ha valore anche in base a come fa sentire le persone, a quanta fiducia genera in loro, a quanto ne parlano bene (o male!), all’immagine che dà di sé. Attenzione: ciò non significa che possa permetterti di avere una scarsa qualità e puntare tutto sulla costruzione della brand identity, dell’immagine e della comunicazione. Una comunicazione ben fatta non potrà mai sopperire alla scarsa qualità dell’offerta, mettiamolo in chiaro a scanso di equivoci. Qui parliamo di aggiungere valore a quello già oggettivo di un prodotto di qualità come, per esempio, una scarpa a marchio Geox.
A questo punto, perciò, ti chiedo: ma se Geox non avesse lavorato così bene sulla propria identità di marca, se non avesse fatto moltissima comunicazione di sé da quando è nata, se non avesse esplicitato così bene la sua promessa, pensi che sarebbe diventata così famosa? Pensi che le persone l’avrebbero conosciuta e apprezzata tanto quanto è conosciuta e apprezzata oggi? Pensi che sarebbe così facilmente associata a ciò che – in effetti – si propone di essere?
Io penso di no, prova ne è che nella maggior parte dei casi tutte le persone di fronte alla scelta tra una marca conosciuta e una sconosciuta, propendono per la prima. Non perché la marca sconosciuta sia più scadente (tra l’altro, se è sconosciuta non possiamo saperlo) ma perché le manca la cosiddetta brand awareness: le persone non ne conoscono dettagli, storia e identità. E la brand awareness non si crea da sola, ma necessita di un lavoro strategico e continuativo.
Il secondo esempio che voglio portarti è un brand personale. Più precisamente, è quello che mi ha fatto decidere di approfondire l’argomento brand equity e spiegarlo in modo che fosse comprensibile al di fuori dei pomposi contesti corporate.
Parliamo di Ghali Amdouni, noto al pubblico solo come Ghali, rapper milanese, figlio di genitori tunisini. Ghali è famoso soprattutto tra le persone sotto i 25 anni, ma nel tempo ha cominciato a disfarsi sempre più dell’etichetta di “rapper per ragazzini” che forse all’inizio poteva essergli appiccicata addosso. Lo ha fatto in molti modi, non ultimo il gesto dell’estate 2022.
Nel mese di luglio, infatti, Ghali posta sui social questa notizia
Ghali gioca un po’ sullo stereotipo del rapper ricco e un po’ strafottente, dicendo che si è comprato una barca. Salvo poi specificare che la barca acquistata è per il salvataggio di esseri umani nelle acque del Mediterraneo ed è una donazione fatta a Mediterranea Rescue, una delle ONG più attive nel Mare Nostrum.
L’artista, anche per la sua origine, ha sempre parlato di temi legati alle migrazioni, alle discriminazioni, al razzismo, perciò non è una novità per il suo pubblico. Ma questo gesto è stato un modo di fare attivismo di brand così coerente e potente che se ha generato un incremento in positivo della sua immagine per chi già lo seguiva, ha anche fatto arrivare a molte altre persone il suo messaggio. Pensa a quante persone non lo seguivano, non lo apprezzavano artisticamente e dopo questo gesto, magari, hanno migliorato molto la percezione e il giudizio nei suoi confronti.
Chiaramente non è un gesto di facciata e fatto solo per aumentare la propria brand equity. Ghali vive in prima persona il tema della migrazione, ne ha sempre cantato e si è sempre esposto anche contro leader politici (celebre un suo diverbio allo stadio con un leader della destra populista). Piuttosto è stato un gesto che ha suggellato un impegno e una presenza di Ghali sul tema, un’azione concreta a sostegno di una causa che ha fatto al posto delle istituzioni, che invece tentennano su una questione così urgente e così grave.
Questa azione, se la spogliamo per un attimo dell’umanità che contiene, ha di certo alzato il valore di Ghali come personal brand. La percezione che le persone hanno di lui oggi è rinnovata: chi lo apprezza più di prima e chi, sicuramente, lo criticherà più di prima. Ma chi lo critica, con alta probabilità, non era suo fan nemmeno prima dati i temi che tratta. Mentre chi lo apprezza a prescindere dalla sua musica, con altrettanta buona probabilità, sono molte più persone.
In conclusione
Se hai un piccolo brand, probabilmente non potrai fare investimenti importanti come quelli che ha fatto Geox per posizionarsi in modo così forte fin dal principio, e nemmeno comprare una barca per salvare vite umane come ha fatto Ghali. Diciamo che, però, non ti è richiesto così tanto. Ci sono tante cose che puoi fare per:
- avere un impatto importante sulla tua nicchia,
- far sentire bene le persone a cui ti interessa parlare,
- aiutarle e farle sentire parte di un progetto più grande del tuo prodotto o servizio.
Patri dall’individuare i tuoi valori, poi traducili in pratica nelle tue offerte, nella tua comunicazione, nel modo in cui ti poni verso il mondo. Ascolta meglio la tua nicchia e dialoga con lei, coltiva la tua immagine in modo coerente, partecipa a eventi o iniziative che portino valore a ciò che fai e tanto altro. Questo è lavorare sulla brand equity, questo è fare branding.
Non è uno sprint, è una lunga distanza fatta di tappe e strategie per ogni tappa. Perché la marca accresca il proprio valore nel tempo, è necessario lavorarci con cura fin dall’inizio e proseguire con costanza nel tempo. Il branding non è una formula o un modello preimpostato, ma una ricerca e una strategia su misura per ogni marca, funzionale a farla posizionare, acquisire valore e, più di tutto, mantenerlo.
Il branding è, a tutti gli effetti, una strategia che deve svilupparsi nel tempo con coerenza, autenticità e visione d’impresa. Questo è ciò che farà sentire tutta la forza della tua marca sul mercato.
Se vuoi lavorare sulla tua identità di marca, su come crearla e comunicarla, lavora con me alla tua brand strategy con Mediterraneo.
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